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procurarsi per mezzo di denaro plausi ed ovazioni, e col dichiarare ai ministri che intendeva riprendere le redini del governo.

Tentò Bentinck dissuadernelo, ma benanche le minacce non ebbero effetto. Allora Castelnuovo e Beimonte inviarono al re le loro rinunzie, insistendo con tenacità per averle accettate.

L’esempio loro fu seguilo dal Settimo, il quale appena seppe ciò che avevano fatto i suoi due nobili compagni, e tosto venne in pensiero imitarli. Si recò quindi immantinente alla villa la Favorita, dove il Borbone avea fatto ritorno, ed in persona gli rassegnò la propria dimissione, adducendo le stesse cause, che mossero i due colleghi che avevan già voluto dimettersi, cioè il timore delle serie conseguenze della rottura col governo d’Inghilterra.

Il re si rifiutò ostinatamente e, come Ruggero Settimo con pari fermezza ripetea la domanda, gli disse sorridente ed amichevole le seguenti parole, che qui trascriviamo dalle cronache del tempo:

«Non dubitare, non v’è nulla da temere; tutto si accomoderà. Non saranno punto disturbate, interrotte la pace e la buona intelligenza tra me e la Gran Brettagna.»

Ruggero Settimo, che conosceva bene la posizione ed apprezzava gli uomini e le cose per quanto realmente valevano, rispose ossequiosamente, come per mala sorte del paese le dissidenze col governo inglese fossero inevitabili, e i tristi effetti che ne sarebbero venuti, tali da non poter dissimularsi, avendo egli stesso parlato con lord Bentinck ed essendo venuto quindi in conoscenza delle precise intenzioni di lui.

Parlò così e si ritrasse; ma nè allora, nè in seguito, in quella circostanza potè venire a capo di aver accettata la propria dimissione che il re si ostinò a rifiutargli.

Quest’atto accrebbe a mille doppi la popolarità già molta del giovine patriota, che col non lasciare soli nel ritirarsi i due ministri degli esteri e delle finanze diè prova di esemplare abnegazione, rinunciando al potere per protestare contro la politica del re.