Pagina:Caro, Annibale – Opere italiane, Vol. I, 1912 – BEIC 1781382.djvu/160

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III

Scarica, Farfanicchio, un’altra botta: dá nelle casematte e ne’ gabbioni, dove le vespe aguzzan gli spuntoni, e dove il calabron fa la pallotta.

Apposta, che sian tutti in una frotta le zanzare e le lucciole e i mosconi: poi con pece e con razzi e con soffioni gli sparpaglia, gli abbrugia e gli pilotta.

Suona il cembalo ed entra in colombaia, ove covano i gheppi e i falimbelli, o lanciavi un terzuol che vi s’imbuche.

E tu grida, menando il can per l’aia, ai grilli, che rosecchiano i granelli :

— Gitene al palio con le tartaruche. —

Ficca poi due festuche nel becco al barbaianni, e come un pollo fallo pender coi piè, fin che sia frollo. t

IV

Il castello è giá preso: or via forbotta la ròcca, e quei suoi vetri e quei mattoni, ch’un sopra l’altro, come i maccheroni, sono a crusca murati ed a ricotta.

Giá l’hanno i topi e le formiche addotta, per fame, a darne sfatichi e prigioni ; giá si sente al bisbiglio di moscioni, che v’è rumore e disparere e dotta.

O’l gufo n’esce! odi che Secchia abbaia: ai passi, alle parete, ai buccinelli, gran fatto fia che piú vi si rimbuche.

Io t’ho pure: oh ve’ ceffo, oh che ventraia guat’occhi, se non paion due fornelli! o sucide pennacce, irte e caduche!

Or su, gufaccio, su, che tosto ti veggia, e nudo e trito e sollo. Questo è ranno bollente ov’io t’immollo.