Pagina:Commedia - Inferno (Buti).djvu/809

Da Wikisource.
[v. 22-30] c o m m e n t o 765

ciando e mordendo li altri; e però dice: Ma nè di Tebe furie, nè troiane Si vider mai in alcun; cioè contra ad alcun, tanto crude; cioè tanto crudeli, No in punger bestie; che sarebbe minor crudeltà, non che membra umane; che è maggior crudeltà, Quant’io; cioè Dante, vidi in due ombre smorte e nude; pone che vedesse due anime così furiose e pone loro due accidenti; cioè ch’erano smorte et erano nude. E queste due condizioni si convengono a chi per furore d’avere, o d’amore, s’induce a falsificare sè in altrui, o altrui in sè, come fanno questi due de’ quali si dirà di sotto; e sì per conveniente pena nell’inferno: imperò che degna cosa è che chi per ispogliare altrui di sua onestà, o di suo avere, se è falsificato, sia nudo e privato di quello e d’ogni altro bene: e come la paura, che è significata per lo smortore, l’àe accompagnato in questa vita; così l’accompagni sempre nelle pene. E sì ancora per allegoria si convengono questi due accidenti a quelli del mondo: imperò che, quando l’uomo è sì1 vinto dal furore dell’amore e dell’avere, ch’elli s’arreca a falsificare sè o in altrui, o altrui in sè, elli è sempre in paura che non si scuopra la sua falsità, et è nudo d’ogni difensione2 quanto al vero e quanto alla sua coscienzia, benchè si veli e cuopra alli altri. Che mordendo correvan di quel modo; due altre condizioni nota qui; correre e mordere, le quali benchè sieno segno di furore, ancora si convengono loro per pena nell’inferno: imperò che degna cosa è che chi à avuto tanto furore, che à sostenuto di falsificarsi e non à riposato quel furore, sempre corra e mai non abbia posa: e come è stato bestiale in questa vita, mordendo l’onestà e facultà altrui; cioè togliendo con violenza e con inganno; così rimanga sempre in quella bestialità. Ma per allegoria di quelli del mondo puose queste condizioni: imperò che mai non si riposano li lor pensieri; ma sempre corrono e mordono sempre la facultà e l’onestà altrui: e che l’autor ponga in questi così fatti, che falsificano sè in altrui, o altrui in sè, lo furore che non l’à posto nelli altri, non è senza cagione: imperocchè falsificare li metalli o altre cose è minor peccato, e puossi dire che sia infermità di mente, e però à finto che sieno infermi. Ma falsificare sè medesimo è maggior peccato, e puossi dire che al tutto è uscito della ragione chi tal cosa adopera; e però convenientemente l’autor finge alli dannati debita pena, poi che l’ànno avuto in questa vita, che l’abbiano ancora di là. E notantemente per allegoria mostra in quelli del mondo essere maggiore errore, in quanto li finge furiosi per rispetto delli altri che finge essere infermi di varie infermità, sì come varie circustanzie può avere sì fatto peccato. Che porco, quando del porcil si schiude; qui fa

  1. C. M. sì iunto dal furore
  2. C. M. defensione