Pagina:Commedia - Inferno (Tommaseo).djvu/25

Da Wikisource.

xvii


IL SECOLO DI DANTE.



Per le terre d’Italia che ricettarono un profugo, corre la gloria a baciare le sue vestigia; interroga i monumenti, le storie, le tradizioni per poter dire: Qui stette Dante Allighieri. Quest’Italia ch’egli flagellò con la fiera libertà del suo verso, lo adora. Moltiplicano le ristampe, i comenti, le vite, i ritratti; sempre nuove germogliano questioni, sempre nuove bellezze sfavillano. Lo citano i dotti e gli storici, lo studiano come maestro di ben dire i prosatori e gli scienziati. Leggere Dante è un dovere, rileggerlo è bisogno; sentirlo è presagio di grandezza.

Notabile che nessun secolo, dopo il decimoquarto, tale onoranza rendesse al nome di lui, quale il nostro. Dalle querimonie amorose, dall’argute gonfiezze, e dalle arcadiche semplicità sollevarsi a così nobile esempio, pare a me lieto augurio di sorti migliori.

Ho detto che primo a degnamente onorar l’Allighieri fu il secolo nel quale egli crebbe. Chi non sa del Boccaccio, che cinquant’anni dopo la morte di lui ne comenta in una chiesa di Firenze il poema, e co’ propri rincalza i rimproveri di Dante innanzi a’ cittadini che non temono d’ascoltarlo; il Boccaccio che la Commedia manda al Petrarca, trascritta di sua propria mano, dono e consiglio? Chi non legge con gioia nel guelfo Villani le schiette parole: «Questo Dante fu onorevole antico cittadino di Firenze... fu grande letterato quasi in ogni scienza... fu sommo poeta e filosofo?» E perchè la nazione, a que’ tempi non isfiordta della sua giovane vita, sentiva l’alito della poesia, però di poetiche forme vestiva la lode; e narrava d’un sogno rivelatore ch’ebbe la madre incinta di lui. E un suo discepolo raccontava poi come «l’ottavo mese dal dì della morte del suo maestro, una notte Jacopo figliuolo di Dante avesse, nel

Dante. b