Pagina:Commedia - Paradiso (Buti).djvu/748

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cioè altresì tosto, come io Dante, mi rivolsi; cioè rivolsi me al detto lume, e furori tocchi Li miei; cioè occhi, da ciò che pare in quel volume; cioè da ciò che si vede in quella Deità, che è immensa Quandunche; cioè 1 quando, nel suo giro; cioè del detto lume, ben s’adocchi; cioè ben si ragguardi, cioè quando li miei occhi ebbono veduto ciò che si può vedere de la Deità, che è lume infinito e bene senza misura, non viddi se non uno punto, perchè non fui capace di più, nè nessuno intelletto può essere capace se non di poghissima 2 parte; e però dice: Un punto 3 viddi; cioè io Dante, che; cioè lo quale punto, raggiava; cioè come raggi gittava, lume Acuto sì, che ’l viso; cioè sì eccessivo e per sì fatto modo, che la vista, ch’elli affoca; cioè nella quale gitta li suoi raggi, Chiuder conviensi; cioè conviene che li occhi, ne li quali gitta li suoi raggi, si chiudano, per lo forte acume; cioè per la forte chiarezza et eccessiva del detto lume; e niente di meno, benchè sia d’infinita eccellenzia, in qualità apparente era come minima stella et anco via meno, e però dice: E quale stella par quinci; cioè qualunqua stella pare da questo luogo, cioè del mondo e de la terra, dove era Dante quando questo scrisse, più poca; cioè qualunqua stella pare a noi omini minore, quando ragguardiamo in cielo, Parrebbe Luna; cioè parrebbe che fusse una Luna in grandezza, locata con esso; cioè se li fusse posta a lato: tanto è poco quello punto, Come stella con stella si colloca; fa la similitudine dicendo: Se una minima stella si ponesse lato al detto punto, come nell’ottava spera ne veggiamo assai, l’una a lato a l’altra, essa stella parrebbe una Luna a rispetto di quel punto. Questa fizione del punto fa qui l’autore, a mostrare la simplicità 4 de la divina Essenzia, a la quale attribuisce lume tanto eccessivo, a dimostrare la infinita sua potenzia e sapienzia e bontà, la quale è tanta che per nessuno si può comprendere 5. Seguita.

C. XXVIII — v. 22-39. In questi sei ternari lo nostro autore

  1. C. M. cioè quandunqua, in qualunque tempo, nel suo
  2. Poghissima. Così pronunziasi tuttora in alcune provincie d’Italia verso il mezzogiorno e nel centro. E.
  3. Dante dipinse Dio come un punto di picciolezza infinita; ma d’uno splendore vivissimo; cotalchè ad esprimere la semplicità esclude affatto l’infinito matematico, e per indicarne la virtù gli attribuisce l’infinito dinamico. Tale è la sentenza del Gioberti, il quale accordasi col nostro Butese. E.
  4. C. M. simplicità et individualità della divina
  5. C. M. comprendere. Et à fatto questa finzione per osservare l’ ordine che à tenuto in fine a qui. Imperò che in ogni cielo è finto che si li sia rappresentato quello che è conveniente a la sua influenzia. E perchè questo cielo, nel quale finge che ora fusse, è lo primo mobile e conviene che lo suo moto si cagioni da uno principio immobile simplicissimo e con mezzo o senza mezzo: e Dio è questo principio, però finge che qui si li rappresentasse questo punto. Seguita.