Pagina:Commedie di Aristofane (Romagnoli) I.djvu/166

Da Wikisource.

GLI ACARNESI 55


può dirlo pure una commedia: ed io
cose dirò gravi, ma giuste. Adesso
non mi calunnierà Cleon, ch’ io sparli
della città dinanzi ai forestieri.
Siamo in famiglia, è l’agone lenèo,
non ci son forestieri, né alleati,
niuno è venuto a portare tributi:
siamo noi, tutto fiore di farina;
ché i meteci, già, son come la pula.
Odio assai gli Spartani; e così abbatta
Poseidone, il Dio che sede ha in Tènaro,
tutte le case lor con una scossa:
ché recise anche a me furon le viti.
Ma quali accuse, giacché voi presenti
mi siete amici, noi moviamo a Sparta?
Certi dei nostri — la città non dico,
badate bene, la città non dico —
ma dei poco di buono, della gente
da conio, senza onor, tristi, bollati,
andavano a spiar sotto i mantelli
dei Megaresi; e appena ci vedevano
un porcello, un cocomero, un leprotto,
un capo d’aglio, un pizzico di sale,
tutto era di Megara, e si vendeva
su due piedi. Ma queste erano inezie
paesane. Dei giovani briachi,
dopo il còttabo, andarono a Megara
a rapir Cammina, la bagascia.
Inaspriti per l’ira, i Megaresi
rapirono a lor volta due baldracche