Pagina:Cuore infermo.djvu/111

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Parte terza 111

garzoni non chiassavano nel cortile; i servi non isparlottavano in anticamera; nella vasta cucina non si litigava mai. Le porte si aprivano e si chiudevano quietamente, i campanelli non tintinnavano mai due volte, gli ordini non si ripetevano, le visite erano annunziate con tono discreto. Beatrice aveva principiato per dare alla casa, alle mura, ai mobili il colore del suo spirito; poi lentamente ne aveva soggiogati e diretti a suo modo gli abitatori, diventando realmente lei la padrona, la signora del palazzo Sangiorgio e di quanti ci vivevano.

Rimaneva Marcello.


Marcello lasciava fare. Egli si trovava in uno di quei periodi di stanchezza che arrivano sempre, dopo che si è fatto un grande sciupìo di forze in una gioia o in un dolore. Del resto, era anche nel suo temperamento estremo, acuto, questo avvicendarsi di attività eccessive con le lassezze profonde; questo ascendere ardentemente, avidamente, al massimo punto dell’espansione, per discendere e piombare, immobile, nella completa atonia. Alla notte indimenticabile del ballo era succeduta la partenza precipitosa, tanto rassomigliante ad una fuga — ed un viaggio furioso, in cui egli era anelante di giungere a Napoli per abbandonarsi in quell’oblio momentaneo che prepara l’anima ad una nuova battaglia. Marcello lasciava fare, si lasciava vivere. In quella specie di lenta apatia in cui si era ridotto, provava un solo bisogno: vivere molto all’esterno, di sè, della sua casa. Temeva di pensare troppo, di riflettere troppo, di assorbirsi troppo. Ora come ora, si sentiva calmo. Ma lì, in un punto ignorato dell’anima, ci doveva essere un dolore sussistente, latente, che aspettava di essere evocato