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162 notturno

tuono dei mortai scoteva il giorno intorno al sole come il vento sfalda la cenere d’un ceppo che si consuma. Cumuli lustri di carbone sotto alberi spogli, su la riva dell’Ausa nericcia come una gora di gualchiere. Nulla più.

Alla soglia dell’ospedaletto il bianco delle fasce trapassate dal sangue, la povera carne messa fuori di combattimento, la bocca inquieta di chi non vede, l’odore tenace della trincea e della caverna, lo stupore della battaglia abbuiata. Nulla più.

I feriti mormorarono il mio nome e s’accalcarono nell’andito, commossi. Invece dell’elmetto di ferro portavano il turbante di cotone e di garza. Qualcuno si chinava in su, per cercare di scorgermi di sotto alla benda. Sorridevo, a testa alta, come nel camminamento battuto, dicendo: «Coraggio, figliuoli!»

Uno, che aveva tutt’e due gli occhi fasciati, mi chiamò col mio nome