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tra cefalù e roma 177

Questo dei rumori è un guaio, ma ho la veduta libera sulla discesa del Viminale, un guazzabuglio pittoresco di tetti scaglionati; al di là della strada, proprio qui sotto ci ho un bel tappeto verde, degli agave, delle rose, dei zampilli: e a sinistra, in capo al cannocchiale della via ombrosa, uno sfondo di cielo, i monti Albani. Sono lontano dalla Camera, ma in quei quartieri laggiù non ci potrei vivere e fino a quando Settimio Severo non m’appigiona una sala, mi attengo a Roma buzzurra.

A proposito di Camera, l’altro giorno mi scordai di dirti che ho parlato anche in favore dei frati, proprio, dei frati francescani. Oh! dice lei. Sì signora, dico io, e ho fatto molto bene, quantunque le mie parole sieno cadute sulla strada o fra le spine. Figurati che si è raccomandato al ministro di largheggiare nei sussidi alle nostre scuole laiche d’Oriente e di affamare le scuole tenutevi da corporazioni religiose. Il ministro ha risposto timido timido, non convinto in cuor suo, ma inchinandosi a tanta sapienza; c’est bête, mais c’est comme ça. Solo un signore di sinistra ha osato dire che, se noi viviamo nella luce della filosofia e della scienza, quei poveri asiatici stanno ancora nell’ombra della religione; e che volendoli pigliare, bisogna pigliarli per quel verso, come la Francia! Già qui non si è buoni che a dire: «Vedete come fa la Francia! Vedete come fa l’Inghilterra!» A questo modo io dispero che si arrivi mai, negli altri paesi, a dire: «Vedete come fa l’Italia!» Stavolta però quel signore l’aveva imbroccata giusta, e ho parlato anch’io in nome di un interesse politico, per quei poveri grandi cuori che tanto fanno per un’idea, che non cercano fama, nè

Daniele Cortis. 12