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Strinse la mano a Cortis, con uno sguardo che non sorrideva più, con un leggero tremito della bocca. Poche parole fredde, quasi di cerimonia, furono scambiate tra loro con voce sommessa, vacillante. Seguì un silenzio di qualche momento. Elena guardò sua madre.

«Benedetta!» disse la contessa Tarquinia. «Perchè non parli tu? Bene» soggiunse sospirando dopo aver atteso invano risposta, «parlerò io. Caro Daniele, qui bisogna che facciamo subito consulto. Capisci, già! Povero Daniele, hai fatto tanto a quest’ora e ti siamo tanto grate! Ma proprio, poi; tanto grate: quel che è vero, è vero; ma di cuore, poi. Non badare a Elena se non dice niente, perchè alle volte è insulsetta anche lei, poverina, come sua madre.

Elena alzò in viso a Daniele l’umido fuoco scuro degli occhi. Nè lei, nè lui fiatarono.

«Tu sai, non è vero» continuò la contessa, «di certi discorsi da matto, dico io, che mio genero ha fatto a Cefalù. Va bene. Sai anche di una sua lettera, te ne ho scritto io da Roma; ma non sai mica i termini. Ecco, dunque. Premettiamo che a casa Carrè non si scrive mai, che mio cognato e io siamo scomunicati fin dall’estate scorsa, con quella bella colpa, per parte mia! Basta, è meglio non parlarne di quella faccenda là. Avviene adesso che io mi trovo finalmente in grado di andar a vedere Elena; tu sai in che pena ero, che non l’auguro, un’angoscia simile, neanche a un cane; dunque vado e, naturalmente, vado all’albergo, a quel famoso albergo d’Italia... basta, fa niente. Vado all’albergo. Sfido, in casa degli altri per forza, no, già! E poi Lao m’avrebbe accoppata. Fatto sta che quattro giorni dopo il mio