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profondo. Le grandi palme di fronte al museo con la loro gravità orientale, gli abeti ritti e densi su per il Gianicolo con la loro rigidezza nera, mettevano nella quiete una malinconia solenne.

«Non ci sono stato mai neppur io» disse Cortis, «dev’essere interessante.

Anche la sua voce aveva un leggero tremito. Elena lo seguiva, inerte. Alla porta del museo egli piegò a destra per entrarvi; ma allora quel braccio inerte appoggiato al suo s’irrigidì a un tratto, lo spinse diritto avanti.

«Perdonami, perdonami» singhiozzò Elena con voce soffocata.

Cortis sentì riprendersi dalle vertigini della sera precedente, ma stavolta le vinse con un impeto di volontà, strinse forte il braccio d’Elena e la trasse, camminando rapidamente, in un viale erboso che si perdeva a sinistra, fra le macchie. Là dentro rallentò il passo.

«No, no, Elena» diss’egli, tenero, accarezzandole la mano, portandosela alle labbra. «Cosa vuoi che abbia da perdonarti, cara? Non ho niente, niente.

Ella soffocava il pianto nel fazzoletto, un pianto convulso che le scoppiava dalle spalle.

«No, no, Elena, no, cara» le ripeteva Cortis con una dolcezza che pareva raddoppiare l’emozione di lei. Ella poteva solo dire a stento, quasi parlasse a sè stessa:

«Impossibile, impossibile!

Si chetò poco a poco, alzò il viso a suo cugino.

«Mi perdoni?» diss’ella.

«Ma Dio!» rispose Cortis fermandosi, prendendole ambedue le mani. «Il tuo silenzio? La tua freddezza? Ma se...