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il triste sogno della sua giovane signora cui non vedeva più. Elena posò un momento la mano sul poderoso tronco fedele, tornò indietro. La nebbia argentea si rompeva qua e là sul Corno Ducale, mostrando al sole qualche scoglio verdognolo, come sospeso in cielo. Era un augurio? Un uccellino cantava sui campi, «sì, sì, sì,» ma Elena non gli credette, continuò sospirando le sue visite di addio. Andò nel piccolo studio tutto aperto, sedette sul sofà, prostrata, guardando per la porta tremare al vento il cespuglio di rose, muoversi le frondi della vite cadenti dall’alto e quelle della magnolia a sinistra e l’erba del prato. Il parato bianco e rosa ondulava, ondulavano le cortine con un tintinnio quieto, continuo dei vetri. Il volume di Châteaubriand era aperto sul tavolino. V’erano ancora i fiori appassiti. Elena prese il libro, vi rilesse «jamais ternie.» Dio, Dio, si sentiva morire. Lo chiuse in fretta, lo posò; ma poi lo riprese per portarselo via. Prima di uscire aperse il cassetto del tavolino, stette come stupida a guardar le parole e le cifre scritteci da lei. L’ultima era questa «29 giugno 1881?». Si ricordava di aver voluto dire con quel punto interrogativo; tornerò mai più? Pensò un poco, indi prese la penna, scrisse tremando come una foglia: 18 aprile 1882? La parola e le cifre paiono scritte da un bambino.

Uscendo, trovò che non pioveva quasi più. Sopra il nebbione del Passo Grande s’intravvedeva qualche pallida sfumatura d’azzurro. La finestra di Cortis era aperta. Elena lo sapeva partito all’alba per Villascura.

S’erano accordati fra loro che avrebbe fatto così. Ell’aveva temuto tradirsi, smarrir le forze se Cortis