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fra le rose 49


Elena si era fermata qui con le lagrime agli occhi. Questo fratello che Lucilla chiamava la miglior parte di sè stessa e dono di Dio, non era egli mai stato un pericolo per lei? Quale inconscio sentimento la portava a Renato, quando, tra i boschi di Comborg, non viveva che dell’anima di lui, e, oppressa da tristezze senza nome, traduceva con esso il Tædet animam meam vitæ meæ di Job, o scriveva quelle brevi prose liriche all’aurora e alla luna, così malinconiche e pure nel pensiero, così mollemente musicali nella parola? Elena si era posta, leggendo la lettera in luogo della scrittrice; ella stessa diceva così a Daniele.

Riprese ora la lettura; ma aveva il capo così torbido e infiammato, il petto così oppresso che non potè proseguire. Si sentiva bisogno di aria e di moto. Tolse il volume e uscì per l’anticamera appuzzata di sigaro, camminando in punta di piedi onde non svegliare il barone che dormiva fragorosamente nello stanzino attiguo al suo, con la porta aperta.

Discese in giardino, pigliò il viale che scende con i declivi erbosi e con le selvette di sempreverdi alla chiesuola di San Pietro e al cancello sulla strada maestra. Incontrò il gastaldo che aveva un telegramma per il barone senatore Di Santa Giulia; e datogli ordine di portarlo subito a suo marito, uscì dal cancello, s’avviò a destra, per la strada fiancheggiata di pioppi verso le casupole di Passo di Rovese e il fiume. Pensava a Lugano, dov’era stata due giorni qualche anno addietro. Vedeva una coppa di acque azzurre, una lunga riva di case bianche, gialle, grigie, una corona di poggi e monti verdi fino alla cima.

Daniele Cortis. 4