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342 l’esercito italiano

gio di Calabria. In Sicilia era già cessato. Nei primi giorni del settembre, le piogge lunghe e frequenti avendo prodotto un notevole abbassamento di temperatura, il colèra avea cominciato a decrescere sensibilmente nelle provincie di Palermo e di Messina, e rapidamente in quelle di Trapani, di Girgenti, di Siracusa, di Catania e di Caltanissetta. Rincrudì un’altra volta in queste due città verso la metà di settembre; ma per pochissimi giorni. Dopo i quali la salute pubblica andò continuamente migliorando in tutte le parti dell’isola; così nel mese d’ottobre l’esercito non ebbe più a deplorare che una ventina di morti, e nel novembre sette, e nel dicembre nessuno, o uno o due tutto al più. Fin dal primo decrescere dell’epidemia, le città, villaggi e le campagne mutarono aspetto. Quetato quel primo terrore che nell’animo di molta parte dei cittadini aveva spento ogni senso di amor di patria e di carità, i fuggitivi, di cui il maggior numero eran gente ricca od agiata, cominciarono a ritornare nei loro paesi e a spargere tra le popolazioni indigenti quei soccorsi di danaro, d’opera e di consiglio, che avean negati dapprima. E le popolazioni ripresero animo subitamente, e, come destandosi da un letargo profondo e travagliato, ritornarono a poco a poco agli uffici consueti della vita, già smessi affatto o esercitati a intervalli, con una grave fiacchezza e una specie di stordimento pauroso sotto quella continua imminenza e davanti a quel continuo spettacolo della morte. Tornò la frequenza nelle vie e nelle piazze, le botteghe e le officine si riapersero, e ricominciò a fervere il commercio e si ridestò il lieto rumor del lavoro dove prima era la solitudine e il silenzio o sonava il lamento dei morenti o degli accattoni. Le amministrazioni pubbliche si rifecero a poco a poco degli officiali morti, o fuggiti, od espulsi; si ricomposero, si riordi-