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viso d’una colica, o alla notizia del fallimento del suo banchiere, io credo che si sian prodotte sul mio. Capii sul momento come una gente che mangiava a quel modo dovesse credere in un altro Dio e pigliare in un altro senso la vita umana. Non saprei esprimere quello ch’io sentii nella bocca fuorchè paragonandomi a un disgraziato costretto a far colazione coi vasetti d’un parrucchiere. Eran sapori di pomate, di cerette, di saponi, d’unguenti, di tinture, di cosmetici, di tutto ciò che si può immaginare di meno proprio a passare per una bocca umana. A ogni piatto ci scambiavamo degli sguardi di meraviglia e di terrore. La materia prima doveva esser buona: era pollame, montone, caccia, pesce; piatti enormi e di bella cera; ma tutto nuotante in salse abbominevoli, tutto unto, profumato, impomatato, tutto cucinato in maniera da parer più naturale di metterci dentro il pettine che la forchetta. Pure bisognava mandar giù qualcosa, ed io mi confortavo al sacrifizio ripetendo quei versi dell’Aleardi:


                                     Oh nella vita
    Qualche delitto incognito ne pesa!
    Qualche cosa si espia!


La sola cosa mangiabile era il montone allo spiedo. Nemmeno il cuscussu, il piatto na-