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valladolid. 105


una cosiffatta scossa di gioia, che prima di avvedervene, vi trovate ritto in mezzo alla stanza, col cappello in testa e la Guida tra le mani.

Andiamo dunque a godere Valladolid.

Ahimè! quanto mutata dai bei tempi di Filippo III! La popolazione, che fu già di centomil'anime, è ora ridotta a poco più di ventimila; nelle strade principali fanno un po' di comparita gli studenti dell'Università e i viaggiatori che passano per andare a Madrid; le altre strade sono morte. È una città che fa l'effetto d'un gran palazzo abbandonato, nel quale si vedono ancora qua e là traccie di bassorilievi, di dorature e di mosaici, e nelle sale di mezzo alcune famiglie di povera gente, a cui la solitaria vastità dell'edifizio ispira malinconia. Molte piazze spaziose, qualche antico palazzo, case in rovina, conventi vuoti, lunghe strade erbose e deserte; tutti gli aspetti, insomma, d'una gran città decaduta. Il più bel punto è la piazza Maggiore, vasta, cinta tutt'intorno da un porticato sostenuto da grandi colonne di granito azzurrognolo, sulle quali s'alzan le case, tutte di tre piani, munite di tre ordini di terrazzini lunghissimi, dove si dice che starebbero comodamente sedute ventiquattro mila persone. Il porticato si stende ancora ai due lati d'una larga strada che sbocca nella piazza, e qui e in altre due o tre strade vicine è la maggiore frequenza della gente. Era giorno di mercato; sotto i portici e sulla piazza formicolava una folla di contadini, di erbivendole, di merciai; e poichè a Valladolid si parla il castigliano con pro-