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a quella maggioranza onde stimano che la sorte gli abbia favoriti. Non può esservi stato al mondo un popolo più fiero della sua storia che il popolo spagnuolo. È una cosa incredibile. Il ragazzo che vi lustra gli stivali, il facchino che vi porta la valigia, il mendicante che vi chiede l’elemosina, alzan la testa e mandan lampi dagli occhi al nome di Carlo V, di Filippo II, di Ferdinando Cortes, di Don Giovanni d’Austria, come se fossero eroi del loro tempo, e li avesser veduti il giorno prima entrare trionfalmente nella città. Si pronuncia il nome di España coll’accento col quale dovevan pronunciar Roma i Romani a’ tempi più gloriosi della repubblica. Quando si parla della Spagna, è bandita anche la modestia, dagli uomini naturalmente più modesti, senza che sul loro viso appaia il menomo indizio di quell’esaltamento a cui si condona l’intemperanza del linguaggio. Si inneggia a freddo, per uso, senza accorgersene. Nei discorsi al Parlamento, negli articoli delle gazzette, nelle scritture delle accademie, si chiama il popolo spagnuolo, senza perifrasi, un pueblo de héroes, la grande nazione, la meraviglia del mondo, la gloria dei secoli. È raro il sentir dire o leggere cento parole da chi si sia e a qual si voglia uditorio, senza che o prima o poi non suoni il ritornello obbligato di Lepanto, di scoperta d’America, di guerra d’indipendenza, a cui tien dietro sempre uno scoppio d’applausi.

E appunto la tradizione della guerra d’indipendenza costituisce nel popolo spagnuolo una forza in-