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92 capitolo vi.

Lutzow, ambasciatore d’Austria presso il Papa; e l’altro, chiamato per vezzeggiativo Cuccio, fu argomento di romanzi e di novelle, e segno di odii popolari per il suo amore con Vittoria Savorelli, lo sleale suo abbandono e la morte infelice di lei. L’About aveva scritto il romanzo Tolla, e Paolo Mazio la novella Sabina e Ruggero. La fede violata fece dare ai due fratelli il soprannome di abbruciapagliari, e il duca di Sermoneta, insieme al fratello Filippo, fece un disegno a colori, rappresentante due giovanotti in atto. di dar fuoco a due pagliericci. La caricatura, originalissima, era posseduta dal duca Massimo, e forse ancora esiste. Cuccio riparò a Genova, dove si die’ al commercio dei turaccioli di sughero, che gli portò via gran parte della sostanza; sposò una marchesa Spinola, ed entrambi passavano tristemente i loro giorni, raramente scambiandosi delle parole. Filippo sposò, nel 1839, una delle signorine Talbot, figlia del conte Dsrewsbury. La sorella Guendalina aveva sposato, quattro anni prima, il principe Marcantonio Borghese. Il vecchio Doria aveva una corte di adulatori e amici, tra i quali vanno ricordati il conte Andrea Alborghetti, morto da poco, il conte Sprega ed un marchese Capranica. Il principe Doria passava il maggio alla villa Pamphyli, e per attrarre visitatori, faceva partire, alle sette di sera, da piazza Venezia un omnibus che li riconduceva in città a mezzanotte, con ampio permesso del generale dell’armata d’occupazione, deferentissimo verso il principe, che aveva innalzato nella villa un monumento ai soldati francesi morti nelle giornate del 1849. E in autunno andava a San Martino, presso Viterbo, nel suo feudo, dove è sepolta donna Olimpia, e anche là convenivano ospiti graditi e numerosi, che si davano lo scambio ogni settimana. Fra questi si notava Giulio Vera, morto da poco, uomo di notevole cultura, e fonte copiosa di aneddoti della vita romana, nonchè delle baie, che solevansi dare nell’alta società, a coloro i quali più che ospiti erano considerati parassiti delle mense principesche. Mi narrava il Vera, che a San Martino, egli una sera fu sul punto di sfidare il conte Annibale Moroni e il conte Decio Bentivoglio, perchè in una loro improvvisazione poetica a uso trasteverino, gli avevano appioppati, tra le risa dei padroni di casa e dei cortigiani, questi versi tra stupidi e slombati: