Pagina:De Marchi - Demetrio Pianelli, 1915.djvu/289

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L’intensità di questa contemplazione era tale, che qualche volta dimenticava l’ufficio, il tavolino, la sedia, e zufolando, senza accorgersi, un’arietta, facendo saltare una gamba sull’altra, non si svegliava da quei sogni che alle acute trafitte che gli dava il cuoio duro della sedia, o a un certo dolore duro delle mascelle.

Intanto la lettera di Paolino continuava a rimanere schiacciata da un calamaio e da un «vedremo». Egli non intendeva di rubare a nessuno, ma credeva lecito di aggiornare la pratica, come si dice, nello stile del mestiere.

In mezzo alle gioie delle dolci visioni e tra gli indugi della volontà, respinta ma non strozzata, parlava però sempre la voce della coscienza onesta e ragionevole. «Che diavolo aveva indosso? e che gli saltava in mente? che nuova bestia ruggiva in lui? che cosa intendeva di fare? tagliare le gambe a Paolino? opporsi alla bontà della provvidenza? tradire una povera donna, rovinare lei, sè, gli innocenti? rendersi stupido, ridicolo? far ridere i polli colle sue contraddizioni? e che cosa erano queste scalmane? ohè, signor Demetrio, dove si va? si diventa matti? mancherebbe anche questa; oltre al tradimento farsi dei carichi di coscienza....». E il più bello era questo, che si accorgeva soltanto adesso che sua cognata era una donna e una bella