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esposizione critica della divina commedia | 369 |
ranza è apparente; e quel suo giacere dispettoso e torto e l’amarezza del suo sarcasmo mostra bene il suo dispetto, o, per parlare con Virgilio, la sua rabbia.
A vera sublimitá s’alza il carattere di Dante. Siccome il pianto di Solimano desta piú grande pietá che il lamentio di Tersite; cosí la costanza di un animo sensitivo reca maggiore ammirazione che la stupidezza dell’apatia. Dante sente profondamente il dolore dell’esilio; e basta a mostrarlo il modo pietoso onde ne descrive le ambasce per bocca di Cacciaguida; ma il dolore non ha alcun potere sulla sua volontá, che lo torca ad atto vile o a codardo lamento, e, francheggiato dalla pura coscienza, ei si sente tetragono ai colpi della fortuna.
Però giri Fortuna la sua ruota, Come le piace, e ’l villan la sua marra. |
Nel canto trentesimoterzo è posta in atto una vendetta straordinaria pari alla qualitá dell’ingiuria: la situazione è la stessa di Macduff, ed è bello ragguagliare insieme due poeti tanto simili di genio e differenti di carattere, come sono Dante e Shakespeare, i due idoli della critica odierna. Ambi hanno saputo trarre partito dalla fanciullezza. Il fanciullo è una immagine serena, la cui candida ingenuitá orna di grazia l’aspetto severo della vita: tale è il figliuolo di Coriolano in Shakespeare, ed in Goethe il figliuolo di Goetz. Ma quando lo si vede trastullarsi in una stanza funebre o sorridere al carnefice di suo padre, quasi come una ironia, tanto piú profonda, quanto meno intelligente, ogni suo equivoco è una scena, ogni parola uno strazio, ed il contrasto che ne deriva porta all’ultimo suo grado l’effetto tragico. In Ugolino il dolore è senza pianto e senza voce; egli ha l’immobilitá della disperazione; ma il suo dolore diviene eloquente nelle lagrime e nelle parole de’ figliuoli: angoscioso contrasto tra i muti atti dell’uno e l’espansiva innocenza degli altri.
Io non piangeva; sí dentro impietrai; Piangevan elli; ed Anselmuccio mio Disse: Tu guardi sí, padre: che hai? |
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