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finito; e, mentre è cosí presso a possedere l’amata, domanda in sogno: — Quale sará il mio domani? — , come giá domandava a Pachita.

Cosi la sua guarigione è contemporanea con la morte; Arbella e il Domani si confondono; ed egli morendo profferisce le parole che annunziano la sua guarigione: — «Signore! Signore! accogliete con voi l’anima mia... e fatela degna di rivedere Arbella».

— «Che nozze terribili!» — , esclama il volgo.

No: questo è «il giorno dell’amore».

Armando non potea possedere Arbella che in cielo, dove il desiderio infinito è godimento infinito.

Tale è il malato, e tale è il mondo della sua malattia. A sua contraddizione, ad antagonismo ci sta il mondo della salute, il mondo, della fede ingenua, della vita operosa. Accanto ad Armando, agitato dal pensiero, e alla spoglia fluttuante di ser Calluga i pescatori remigano, cantando la felicitá e l’amore, i pastori intuonano i loro inni campestri, e il mondo maculato dall’umor nero dell’infermo spunta nella sua magnificenza come natura e come storia sotto i vivi colori dell’immaginazione del poeta; il quale, conscio del malore e presago de’ rimedii, è come il coro, sentimento e moralitá della favola.

Il contrasto che a volta a volta e in varie forme si rivela dapprima, prende in ultimo una forma fissa, e converte la favola in un vero dramma. Il contrasto è mastro Pagolo e Arbella; il primo la sana ragione, il buon senso; la seconda schietto amore e fede, immagine cosí serena e pura, quanto l’altra è turbata.

La favola, finché rimane in regioni umane, è una lirica che si trasforma in dramma. Ma, partecipandovi le essenze e le forme celesti, prende proporzioni epiche, diviene non la storia particolare di Armando, ma la storia dell’universo, ed arieggia alle colossali proporzioni della Divina Commedia e del Fausto.

Smisurata ambizione e confidenza di poeta! che, avendo dinanzi un concetto a cui è appena bastevole una vita d’uomo, ha creduto poterlo incarnare, e colorire in pochi anni d’ interrotto e distratto lavoro!