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302 | saggi critici |
chi parla e chi ode sono in diversa situazione d’animo. Quando Dante nomina Virgilio e accenna al « disdegno » di Guido per il gran poeta, suo duce e suo maestro, la sua immaginazione è tutta in quei tempi giovanili, in quelle prime gare della scuola e de’ convegni letterarii, e può molto bene adoperare un verbo di tempo passato, dire «ebbe a disdegno»; ma quel passato giunge all’orecchio del padre senza le idee accessorie che lo spiegano, e significa: — Tuo figlio è morto — . Alla improvvisa notizia succede un movimento istantaneo di ansietá nel suo animo, a cui risponde un movimento parimente istantaneo del corpo:
Di subito drizzato gridò: . . . . |
dove il drizzarsi e il gridare è espresso come un’azione quasi unica e contemporanea, e quell’accento straordinario nella nona sillaba, quell’ «ò» di «gridò» risuona alcun tempo all’orecchio, come corda musicale, che dopo toccata segue il suo tintinnio, e rappresenta e dipinge lo strazio e l’affetto della voce. Questi versi, straordinarii per la giacitura dell’accento nella settima o nona sillaba, si chiamano per l’appunto danteschi, e, fatti a disegno, sono di grand’effetto. Tale è il noto verso del Tasso, che fa riscontro a questo:
La vide, e la conobbe e restò . . . |
I grandi piaceri e i grandi dolori non acquistano fede a prima giunta; si vorrebbe non avere udito, non aver compreso; e si ripetono le parole e si vuole replicata la notizia : si desidera di frantendere, si discrede all’orecchio:
. . . . . . . . . . . . . Come Dicesti: egli ebbe? non viv’egli ancora? Non fere gli occhi suoi lo dolce lome? |
Questo non è una figura rettorica, come ne’ versi del Tasso:
Io vivo? io spiro ancora? e gli odiosi Rai miro ancor di questo infausto die? |