Pagina:De Sanctis, Francesco – Saggi critici, Vol. III, 1974 – BEIC 1804859.djvu/197

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giovanni meli i9i


                                                   Lu pettu s’agita,
Lu sangu vugghi,
Su’ tutti spinguli.
Su’ tutti agugghi.
               

Un sentimento voluttuoso illuminato dalla grazia e dalla delicatezza è nella regina delle sue odi, ch’egli intitola Lu labbru, e che il popolo ha battezzato con questo nome «l’apuzza nica»:

                                              Dimmi, dimmi, apuzza nica.
Unni vai accussi matinu?
Nun c’è cima ch’arrussica
Di lu munti a nui vicinu.
               

Parte di questa potenza si deve al dialetto. Come Dante e Petrarca furono bene ispirati a lasciare il latino e poetare in volgare, bene ispirato fu Meli. L’Arcadia trasportata nel dialetto acquista una virtú nova. Un pensiero insipido e volgare, se lo incontrate in una lingua straniera, vi par nuovo. Ed è nuovo effettivamente, perché la parola straniera te lo porge in un’altra immagine, sotto un altro aspetto. Questo sentite nel dialetto, dove vi brilla innanzi e vi stupisce quella che nella esausta parola italiana ha perduto ogni sapore. E qual dialetto! dove è una melodia che ti spetra e t’intenerisce, quando pure che i sentimenti non sieno teneri, una melodia sino alla tenerezza, e punto monotona e addormenta tri ce, come una ninna nanna i che degeneri in cantilena. (Benissimo)

Non te ne dá il tempo la velocitá di questo dialetto sveltissimo com’è l’ingegno siculo, pieno di scorciatoie e di abbreviazioni, con trapassi rapidissimi, tutto parola propria e piena di senso, senza frasi, senza circonlocuzioni, e mai non stagni, e corri corri. (Benissimo)

Conchiudo. Il Meli trovò una vecchia letteratura e trasportandola nel suo dialetto vi spirò la freschezza della gioventú, ne fece il mondo della veritá e del sentimento. Quel mondo