Pagina:Deledda - Canne al vento, Milano, 1913.djvu/121

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Aspettò Giacinto fino al tardi. La luna piena imbiancava la valle, e la notte era così chiara che si distingueva l’ombra d’ogni stelo. Persino i fantasmi, quella notte, non osavano uscire, tanta luce c’era: e il mormorio dell’acqua era solitario, non accompagnato dallo sbatter dei panni delle panas. Anche i fantasmi avevan pace, quella notte. Il servo solo non poteva dormire. Pensava alla storia di Giacinto e del capitano di porto, e provava un senso d’infinita dolcezza, d’infinita tristezza.

Tutti, nel mondo, pecchiamo, più o meno, adesso, o prima o poi: e per questo? Il capitano non aveva perdonato? Perchè non dovevano perdonare anche gli altri? Ah, se tutti si perdonassero a vicenda! Il mondo avrebbe pace; tutto sarebbe chiaro e tranquillo come in quella notte di luna.

S’alzò e andò a fare un giro nel poderetto. Sì, sul sentieruolo bianco si disegnava anche l’ombra dei fiori: le foglie dei fichi d’india avevano le spine, nell’ombra, e dove l’acqua era ferma, giù al fiume, si vedevano le stelle.

Ma ecco un’ombra che si muove dietro la siepe, fra gli ontani: è un animale deforme, nero, con le gambe d’argento: scricchiola sulla sabbia, si ferma.

Efix corse giù; gli sembrava di volare.

— Sei tu! Sei tu? M’hai spaventato.

Giacinto si tirò a fianco la bicicletta e lo