Pagina:Deledda - Canne al vento, Milano, 1913.djvu/176

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— Dimmelo, dimmelo! — rantolava Efix, sollevando le palme insanguinate. — È stata tua madre? Dimmi almeno che non è stata lei.

Giacinto fece cenno di no.

Allora Efix parve calmarsi.

— È vero, — disse sottovoce. — L’ho ucciso io, tuo nonno, sì. Mille volte avrei confessato per la strada, in chiesa, ma non l’ho fatto per loro. Se mancavo io, chi le assisteva? Ma è stato per disgrazia, Giacì! Questo te lo giuro. Io sapevo che tua madre voleva fuggire, e la compativo perchè le volevo bene: questo è stato il mio primo delitto. Ho sollevato gli occhi a lei, io verme, io servo. Allora lei ha profittato del mio affetto, s’è servita di me, per fuggire.... E lui, il padre, indovinò tutto. E una sera voleva uccidermi. Mi son difeso; con una pietra gli ho percosso la testa. Egli s’aggirò un po’ intorno a sè stesso come una trottola, con la mano sulla nuca, e cadde, lontano dal punto ove mi aveva aggredito.... Io credevo lo facesse apposta.... Attesi.... attesi.... che si sollevasse.... Poi cominciai a sudare... ma non potevo muovermi... Credevo sempre fosse una finzione.... E guardavo.... guardavo.... Così passò molto tempo. Finalmente mi accostai.... Giacì? Giacì? — ripetè due volte Efix, con voce bassa e ansante, come se chiamasse ancora la sua vittima, — lo chiamai.... Non rispondeva. E non ho potuto toccarlo.... E son fuggito; e poi son tor-