Pagina:Deledda - Canne al vento, Milano, 1913.djvu/272

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In cucina c’era luce, ma non la luce fiammante della casa di Grixenda: un lumino funebre sopra la panca antica, in mezzo a una grande ombra.

No, nulla era mutato: tutto era morto ancora. Ed Efix pensò con dolore:

— Non dev’esser vero che donna Noemi ha acconsentito.

Istintivamente cercò di attaccare la bisaccia al piuolo, ma il piuolo non c’era: nessuno lo aveva più rimesso; ed egli tenne con sè la bisaccia come un ospite che deve presto ripartire.

Donna Ester leggeva tranquilla seduta su uno sgabellino davanti alla panca antica, ma d’improvviso il gatto posato sulla sua ombra accanto al lume e che seguiva con gli occhi i movimenti delle mani di lei, le saltò in grembo come volesse nascondersi e di là balzò sotto la panca: ella sollevò la testa, vide lo sconosciuto e cominciò a fissarlo con gli occhi scintillanti e il libro che le tremava fra le mani.

— Ebbene, sì, sono io, padrona mia! Sono tornato. Il vagabondo è tornato. Che ne dice, donna Ester? Come va la salute?

— Efix! Efix, Efix! — ella balbettava.

— Proprio Efix. Ha male agli occhi, donna Ester, che tiene gli occhiali?

— Tu, Efix! Siedi. Sì, ho avuto male agli occhi dal troppo piangere.