Pagina:Deledda - Cenere, Milano, 1929.djvu/139

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Un’agitazione febbrile invase Anania; senza esitare oltre uscì e camminò come un sonnambulo per le straducole buie e deserte. Dietro i muri dei cortili, nelle rozze tettoie delle case paesane, i galli continuavano i loro canti dispettosi; l’aria umida odorava di stoppia; una povera infornatrice di pane d’orzo, che tornava dal compiere il suo faticoso mestiere, attraversò una viuzza; il passo di due alti carabinieri risuonò sinistramente sul lastrico del Corso: poi più nessuno, più nulla.

Anania rasentava i muri, pauroso d’esser riconosciuto nonostante il buio, e appena impostata la lettera si mise a correre. Ma non potè rientrare a casa; gli pareva di soffocare, aveva bisogno d’aria, di immensità. Scese verso lo stradale di Orosei, risalì il ciglione, e solo quando si trovò ai piedi dell’Orthobene respirò, aprendo le narici come un puledro sfuggito al laccio. Avrebbe voluto gridare di gioia e di spasimo. Albeggiava; tenui veli azzurrognoli coprivano le grandi valli umide, le ultime stelle svanivano. Non sapeva perchè Anania ripeteva i versi:

Care stelle dell’Orsa io non credea....


e cercava di ricacciare da sè il pensiero di ciò che aveva fatto, mentre se ne sentiva felice fino allo spasimo.

Prese a salire l’Orthobene, strappando fronde, ciuffi d’erba, lanciando pietre e ridendo; pareva pazzo. I cespugli odoravano, il cielo dietro l’e-