Pagina:Deledda - Cenere, Milano, 1929.djvu/153

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treranno fra poco, — disse la serva con arroganza. — Perchè non sei venuto prima?

— Perchè faccio quel che mi pare e piace, — diss’egli entrando.

— È giusto, meglio perdere il tempo con quella schifosa d’Agata che venire a riverire i benefattori.

— Auff! — egli sbuffò, appoggiandosi alla finestra dello studio.

Ah, la serva lo umiliava come in quella notte lontana quando egli con Bustianeddu eran venuti per chiedere una scodella di brodo: nulla era cambiato; egli era sempre un servo, un beneficato. Lagrime di rabbia gli inumidirono gli occhi.

— Ma io sono un uomo! — pensò. — Posso rinunziare a tutto, lavorare la terra, fare il soldato, ma non esser vile. Ora me ne vado.

E si staccò dalla finestra, ma sfiorando la scrivania già illuminata dalla luna, scorse fra le carte buttate su alla rinfusa una busta rosea a righe verdi.

Il sangue gli salì al capo; le orecchie gli arsero, percosse da una vibrazione metallica; incoscientemente si curvò e prese la busta.

Sì, era quella, squarciata e vuota. Gli parve di toccare la spoglia di una cosa per lui sacra, ch’era stata violata; ah, tutto, tutto era finito per lui, l’anima sua era vuota e sbranata come quella busta.

D’un tratto una viva luce inondò la stanza; egli vide Margherita entrare, ed ebbe appena il