Pagina:Deledda - Colombi e sparvieri, Milano, 1912.djvu/14

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simile anch’esso ad una terrazza sospesa su un precipizio.

Di là si godeva la vista dell’altipiano; si vedeva la strada comunale serpeggiare sulle chine rocciose che dominano la chiesa e sparire nella linea coperta di boschi che chiude l’orizzonte. E la chiesa con la sua torre di pietra, l’abside e la facciata corrose qua e là coperte di edere e gramigne, pareva su quello sfondo grandioso un avanzo di castello abbandonato.

La vecchia attraversò il piazzale sterrato ed entrò; anche nell’interno della chiesa tutto era freddo, nudo e triste: solo alcune vecchie e un mendicante assistevano alla messa, e la voce lenta del giovine prete risuonava chiara nel vuoto, fra i sibili del vento che si sbatteva contro la torre come contro le rupi d’una cima deserta.

Finita, la messa la vecchia aspettò che tutti se ne andassero e fece in modo d’incontrarsi sotto l’arcata della porta col sacerdote che usciva frettoloso, stretto in un grosso tabarro, con le mani dentro le maniche e il viso bianco e lentigginoso d’albino seminascosto da una sciarpa nera. Egli tremava visibilmente dal freddo e i suoi piccoli occhi grigi velati da lunghe ciglia, bianche erano umidi di lagrime.

— Buon giorno, — salutò la vecchia, fissandolo in viso coi suoi grandi occhi tetri. — Mi rallegro molto di vedervi guarito. State bene adesso?

— Non c’è male, — egli disse con voce triste. — Speriamo che il tempo si rimetta: così ci rimetteremo anche noi.

— Aria fina non ne manca! — aggiunse un po’ ironica la donna, seguendolo attraverso lo spiazzo.

— Troppa fina, zia Giusé! — rispose il prete sul medesimo tono, precedendola senza guardar-