Pagina:Deledda - Colombi e sparvieri, Milano, 1912.djvu/17

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vano su altissimi scalini di roccia, come se gli abitanti avessero le gambe gigantesche o si fossero premuniti contro qualche possibile inondazione: solo la penultima casa del viottolo, al di là della quale sorgeva una muriccia che recingeva un cortile sterrato, aveva due piani, con tre porte d’ingresso, di cui quella centrale grande è a livello della strada. I muri anneriti dal tempo e le piccole finestre irregolari munite di inferriata facevano anche qui pensare a un avanzo di castello medioevale.

Dal portone centrale socchiuso la vecchia intravide una specie di rimessa lastricata di macigni e in fondo un cortile ove un cavallo già sellato e carico di bisacce batteva la zampa al suolo, impaziente di partire. Ella diede uno sguardo bieco ed entrò nell’abitazione attigua.

Il luogo era triste e deserto; pozzanghere d’acqua gelata riempivano il cortiletto in pendio, e la catapecchia che sorgeva in fondo sembrava disabitata. Una scaletta esterna, senza ringhiera, con gli scalini a metà rovinati conduceva alla stanza del piano superiore. La vecchia però, dopo aver attraversato il cortiletto badando di non rompere il ghiaccio delle pozzanghere spinse la porta della stanza terrena. Un tanfo di umido la colpì. Entrò senza salutare, quasi furtivamente, e si guardò attorno.

La camera vasta e bassa con le pareti color terra e il soffitto di assi nere di fuliggine, un tempo doveva aver servito da cucina perchè nel centro, sul pavimento di fango battuto, si notavano ancora le quattro liste di pietra del focolare; sarebbe parsa un sotterraneo senza un filo di luce azzurrognola che penetrava dallo sportello di una porticina che dava sul ciglione opposto al cortile.

Il tenue barlume illuminava una cassapanca