Pagina:Deledda - Elias Portolu, Milano, 1920.djvu/28

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Tacquero. La voce di Elias si era fatta profonda nel pronunciare quelle ultime parole. Durante il pomeriggio, nella prima, ebbrezza della libertà, egli aveva parlato facilmente della sua prigionia e dei suoi compagni di sventura, sembrandogli una cosa già lontana, quasi piacevole a ricordarsi. Ma adesso, in quell’oscurità silenziosa, nel sentire l’odore fresco della campagna che gli ricordava i giorni felici della sua prima giovinezza trascorsa nell’ovile, nella sconfinata libertà della tanca paterna davanti a sua madre, a quella vecchierella buona e pura, improvvisamente, il ricordo degli anni perduti invano nell’angoscia del penitenziario, gli destava orrore.

— Io sono assai debole, — disse dopo qualche momento, — non ho forza per nulla: è come se mi avessero troncato la schiena. Eppure non sono mai stato ammalato; solo una volta ho avuto una colica tremenda, e mi pareva di morire. Santu Franziscu mio, — dissi allora, — fatemi uscire da quest’orrore, e la prima cosa che farò, tornando in libertà, sarà di venire alla vostra chiesa e portarvi un cero.

Santu Franziscu bellu! — esclamò zia Annedda, giungendo le mani. — Noi ci an-