Pagina:Deledda - L'argine, Milano, Treves, 1934.djvu/51

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te, mi mandava le figlie a farmi compagnia. Tutto scivolava sulla mia anima come su una lastra di cristallo. Il dolore, lo smarrimento, la più desolata sfiducia della vita mi congelavano. Stavo ore ed ore immobile, come ho veduto fare a una donna del popolo che aveva il marito disperso in guerra e lo aspettava in quel modo. Anch’io aspettavo un miracolo: che mio padre tornasse dalla foresta. E adesso, sì, gli volevo bene; e il rimorso di non averlo potuto far prima, accresceva la mia pena. Non mi preoccupavo del mio avvenire, avevo una buona rendita, e basta. Il mio tutore mi cercava marito; qualche suo affine, s’intende: io provavo già paura e repugnanza di questo marito, decisa a non volerlo: lo sentivo puzzare di vino come il mio tutore: ma tacevo; sembravo una idiota. Eppure un giorno mi svegliai. Forse attirato anche lui dal miraggio della dote, ma anche da curiosità e pietà umana, cominciò a frequentare la nostra casa un nipote di Giovanna, la serva. Era un avvocatino, appena laureato, venuto su dal nulla, cioè da una famiglia di contadini che aveva venduto la metà del suo campo per aiutarlo negli studi. Era ambizioso, intelligentissimo; e vide subito in me una cosa che bisognava scuotere, ravvivare, scoprire come la brage sotto la cenere. E fu dapprima ragazzo con me; come quei ragazzi intraprendenti e cordiali che si av-