Pagina:Deledda - Le colpe altrui.djvu/342

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Mikali sempre più freddo, inerte, lontano. Il cuore le si gonfiò; le parve di sentirselo dentro come una cosa dura che le schiacciava le viscere; desiderò morire. Ma tosto ricordò che tutto era per suo castigo, e anche lei abbassò la testa e piano piano lasciò libera la mano di suo marito.

— Mikali, adesso io vado. Vado da zia Sirena che ci aspetta per dire il rosario. Tu parla con tua madre, un momento, per dirle che hai smesso l’idea di partire.

— Va bene.

Mikali si alzò, ella lo seguì con gli occhi tristi. Ecco, la figura di lui alta nera preceduta dalla sua ombra si allontanava, si dileguava anch’essa come un’ombra. Volle fermarla.

— Mikali! Dove vai... dopo?

— In paese.

— Non andrai alla bettola, Mikali...

Egli non rispose, non si volse e la sua figura parve sprofondarsi giù negli scalini della porta come in un pozzo. Vittoria sentì che egli era perduto per lei; che sarebbe tornato al vino, al gioco, alle donne; eppure non si lamentò: accettava tutto come castigo, e appunto perchè lo accettava, questo castigo le dava un senso che pareva di umiltà ed era di orgoglio.

Rimase a lungo immobile, in ascolto. Sentì Mikali parlare con la madre, uscire, andarsene nella notte, nel mondo, come se partisse per il luogo oscuro al di là del mare. E questo mare lo sentiva rombare in tempesta entro di lei: era il suo dolore.