Pagina:Deledda - Nostalgie.djvu/168

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tuo silenzio, poichè se tu non avessi capito la lettera che ti lasciai a Roma, non mi avresti perdonato e mi avresti scritto (chi non perdona non può non dirlo) — e se l’avessi capita e mi avresti perdonato, o meglio avresti acconsentito a quanto io ti dicevo, mi avresti scritto lo stesso. Non credo poi che tu possa esser malato, perchè qualcuno dei tuoi me ne avrebbe avvertito. Il tuo procedere è assai strano, ed oramai più che addolorarmi mi offende. Sono forse una bambina, che vuoi castigarmi così puerilmente? Il mio è stato forse un capriccio, ma bada, non un capriccio da bambina; è stato uno di quei capricci che castigati troppo severamente possono diventar fatali. Antonio, non credere poi che il tuo silenzio mi induca a ritornare presso di te come un cane frustato; se credi ciò, se, avendo capito la mia passione per te, credi di poterne abusare, ti sbagli.

«Io non tornerò mai presso di te senza un tuo richiamo, e che questo ritorno sia prossimo o lontano dobbiamo deciderlo assieme. O scrivimi o vieni. Se fra otto giorni non mi avrai risposto io non ti scriverò più; più, finchè non mi avrai scritto tu. Ma non so se allora la mia risposta potrà essere come potrebbe essere ora. Dopo tutto, Antonio, siamo marito e moglie, non siamo due amanti che posson permettersi tutti i giochi e le sorprese di una passione forse destinata a perire e a diventare per loro un ricordo. Noi siamo legati da doveri e da vincoli più seri, più profondi e più tragici, forse, di una passione. Se sono stata (ammettiamolo pure) leggera o romantica io, non è una ragione perchè debba esserlo anche tu. E se vuoi