Pagina:Dell'oreficeria antica.djvu/26

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per alcuni anni, ma non saprei ben dir la cagione per cui a mano a mano venne in decadimento e si sciolse. Gli artisti che ne faceano parte si posero allora a restaurare le cose d’arte antiche, ed applicarono anche l’ingegno a falsificarle. In questa ultima riprovevole industria riuscirono a maraviglia, sì che Napoli divenne famosa per tali falsificazioni con sì fina astuzia condotte, adoperandovi terre colorate, acidi, e sali aurifici da rendere assai malagevole, e quasi impossibile il riconoscere se tale o tal altro oggetto fosse antico veramente o no, alle persone che non avessero lunga pratica dell’arte, e non fossero molto addentro nell’archeologia.


X.


Nel 1814 mio padre, ancor giovinetto, apriva il nostro studio, e davasi ad imitare i gioielli di Francia e d’Inghilterra, e non andò molto che seppe vincerli a paragone di lavoro. E già nel 1826 parendogli troppo angusto il campo in cui si esercitava, si rivolse alle scienze chimiche cercandovi nuovi aiuti e metodi per avanzar l’arte sua. In quell’anno stesso diretto nelle sue ricerche dal professor Morichini della romana università, e dall’abate Feliciano Scarpellini, direttore dell’Osservatorio capitolino, egli potè leggere all’Accademia de’ Lincei una memoria sopra i processi chimici del colorimento giallone dell’oro, preconizzando quasi l’applicazione dell’elettricità alla pratica dell’indorare, ed altri fenomeni di simil na-