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atto quinto 175

negar, ladronaccio, che non sia entrato in casa mia, rubbatemi certe vesti da raguseo d’un mio amico, quelle di uno schiavo e molte cose da mangiare, come provature, salcicciotti e barili di malvaggia?

Panfago. Quelle vesti con le quali v’ho servito oggi e che voi mi prestaste?

Alessandro. Io non so chi tu sia, e non t’ho visto fin ora: questi sono i testimoni che ti han visto entrare in casa mia, rubbarle e portarle via.

Panfago. Ed è questo atto da gentiluomo? Cosí vi sète concertati con Forca, per vendicarvi dell’offesa che v’ho fatta.

Alessandro. Che offesa? Capitano, ecco la sua casa: voi lo serrate qui ligato; e voi altri entrate e cercate la casa, ché le trovarete, se non l’ará sbalzate in altra parte.

Panfago. O Dio, che cosa avete inventato contro di me! Troppo acre vendetta per sí picciola offesa.

Alessandro. Che vendetta, ladronaccio? pensi con le tue paroline scappare ch’oggi il boia non ti abbia a far una pavana senza suoni sovra le spalle?

Forca. Ecco le vesti, ecco le robbe toltemi! cosí, furfantacelo, s’entra nelle case di gentiluomini e si vuotano le casse? Su, strascinatelo in Vicaria.

Panfago. O Dio, lasciatemi tor prima un bicchiero di vino, ché la gola mi sta tanto asciutta che non ne può uscir parola.

Forca. Te la stringerá il capestro, la gola.

Panfago. O gola, mi farai morir appiccato per la gola.

Alessandro. Su, caminate, andate via.

Panfago. Vorrei sapere il vostro disegno, io.

Alessandro. Il nostro disegno? non lasciarti mai finché tu non muoia appiccato.

Panfago. Merito questo io per avervi cosí ben servito?

Alessandro. Non si trova gastigo che basti a meritar la tua ladreria. Capitano, di grazia, fatelo strascinare, ch’io mi muoio di voglia di vederlo appicato presto.

Panfago. Oimè, oimè, perché con tanta fretta?

Alessandro. Perché cosí meritano i pari tuoi.