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154 la cintia

SCENA VIII.

Amasio, Capitano, Dulone.

Amasio. Sento nominar Cintio. Ancor sta qui questa bestia che non lascia far i miei fatti? eccomi qui per sbestiarti, bestiaccia!

Capitano. Qui ci manca un schiaffo e una mentita: sta da lungi e non posso dargli lo schiaffo, pazienza! della mentita non posso farne di meno. — Menti d’una mentitissima, arcimentita, arcimentitissima, mentitissimissima, missimissima mentita! Tu sei un di quei che vogliono essere uccisi per forza; ed io ti sodisfarò, ché ti darò il castigo con questa spada temprata nel sangue de’ rodomonti.

Amasio. Toglici questo!

Capitano. (Oh, figlio di puttana, un altro poco piú alto mi dava in testa; ma è gita di piatto, se no stava fresco!). Tu chi sei?

Amasio. Son io.

Capitano. (Certo sará Marte: non potrá esser altro).

Amasio. Son Cintio al tuo comando.

Capitano. (Diavolo, toglitel su calzato e vestito, ché non posso tôrmelo d’intorno tutta la notte; e gli deve venir l’odor al naso del mio valore. Ma non importa: ché se la natura mi ha fatto d’animo debole, mi ha fatto gagliardo di scrima).

Amasio. Chi è questo altro tuo amico?

Dulone. (Bisogna levarmi di qua ché non mi veggia; ché ben s’è accorto che dico mal di lui ad Erasto, e forse fra queste tenebre si volesse sfogar la rabbia c’ha contro di me).

Amasio. Ancor tu sei qui?

Capitano. (Qui ci va la schena a pericolo). Olá olá, o dalla piazza, candele candele, ladri ladri in piazza!

Amasio. Giá s’è fuggito. — Io non so se debba felice o infelice chiamarmi: ché avendo quel conseguito di che non desiava maggior cosa in vita mia, posso felicissimo chiamarmi;