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224 gli duoi fratelli rivali


Don Ignazio. Signora, non fate tanto torto alla vostra nobiltá né tanto torto a me: rifiutar il primo dono di un sposo. Accettatelo, e se non merita cosí degno luogo delle vostre mani, poi buttatelo via.

Carizia. Orsú accetto e gradisco il vostro dono e me lo pongo in dito; e non potendo donarvi dono condegno — ché nol consente la mia povertá, — vi dono me stessa, ché chi dona se stessa non ha magior cosa da donare; e questo anello come cosa mia ve lo ridono in caro pegno della mia fede.

Don Ignazio. Accetto l’anello e accetto l’offerta della sua persona; e se ben ne sono indegno, amor mi sforza ad accettarla. In ricompensa non so che darle se non tutto io; e se ben disseguale alla sua grandezza, accettatelo come io ho accettata la sua persona.

Carizia. Comandate altro?

Don Ignazio. Vi priego a trattenervi un altro poco, accioché gli occhi mei abbino il desiato frutto di lor desiderio.

Carizia. I prieghi de’ padroni son comandi a’ servi; e se ben i rispetti delle donzelle non patiscano tanto, pur per un marito si deveno rompere tutti i rispetti. Eccomi apparecchiata a far quanto mi comandate.

Don Ignazio. Cara padrona, mi basta l’animo solo. So ben che la mia richiesta sarebbe a voi di poco onore: mi contento che ve n’entriate, pregandovi che in questo breve spazio, che non siamo nostri, di far buona compagnia al mio core che resta con voi né si partirá da voi mai; e ricordatevi di me.

Carizia. Non ricordandomi di voi, mi smenticarei di me stessa.

Don Ignazio. Amatemi come amo voi.

Carizia. Troppo vile e indegna è quella persona che si lascia vincere in amore; e se piacerá a Dio che siamo nostri, allora faremo contesa chi amerá piú di noi, ed io dalla mia parte non mi lasciarò avanzare da voi. Adio.

Don Ignazio. Ecco tramontata la sfera del mio bel sole, che sola può far sereno il mio giorno. O fenestra, è sparito il tuo pregio. O Dio, che cosa è nel cielo che sia piú bella di lei,