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264 gli duoi fratelli rivali

per onesta e rigida, a’ colpi de’ sguardi miei; e se con la spada fo ferite che giungono insin al cuore, con gli occhi fo piaghe profondissime che giungono insin all’anima. Ecco Calidora che appena mi guardò una volta, che non sostenne il folgore del lampeggiante mio viso; onde ne restò sconquassata per sempre. Ma io con un generoso ardire non men uso misericordia a quei che prostrati in terra mi chiedeno la vita in dono, che a quelle meschinelle e povere donne che si muoiono per amor mio. Or io mi son mosso a darle soccorso ché non la vegga miseramente morire; ed è gran pezza che mi deve star aspettando. Ma io non veggio per qui Leccardo, come restammo d’appontamento.

SCENA X.

Don Flaminio, don Ignazio, Martebellonio, Panimbolo, Simbolo.

Don Flaminio. Io sento genti in istrada, non so se potremo mandar ad effetto quanto desideriamo: dovevamo cenar prima.

Don Ignazio. A me non parea mai che venisse l’ora di veder un tanto impossibile, per poter dire liberamente poi che onore e castitá non si trova in femina; poiché costei, di cui si narrano tanti gran vanti della sua onestá, si trovi sí disonesta.

Don Flaminio. Cosí va il mondo, fratello: quella donna è tenuta piú casta che con piú secretezza fa i suoi fatti.

Martebellonio. Sento stradaioli. Olá, date la strada se non volete andar per fil di spada!

Panimbolo. Se non taci, poltronaccio, andrai per fil di bastone!

Martebellonio. (Costui par che sia indovino, ché son poltrone).

Don Ignazio. Chi è costui?

Simbolo. Quel capitan vantatore.

Martebellonio. (Vo’ farmi conoscere, ché non m’uccidano in iscambio). O signori don Flaminio e don Ignazio, son il