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270 gli duoi fratelli rivali

Ecco il padre e i principali della cittá che vengono incontro per ricevervi con molt’amorevolezza; ma troveranno in voi tutto il contrario.

SCENA II.

Eufranone, don Ignazio, Simbolo.

Eufranone. Caro signore, siate il benvenuto, per mille volte molto desiato dalla sposa e da’ principali di Salerno!

Don Ignazio. Io vengo con voluntá assai diversa da quel che pensi: stimi che venghi a sposar tua figlia ed io vengo a rifiutarla.

Eufranone. Non sperava sentir tal nuova da voi! Ma in che ha peccato mia figlia che meriti tal rifiuto?

Don Ignazio. D’impudicizia e disonestá.

Eufranone. Onesta è stata sempre mia figlia e cosí stimata da tutti, e non so per qual cagione sia impudica appresso voi solo.

Don Ignazio. Tal è come dico.

Eufranone. Or non vi pregai io, allor che tanto ansiosamente m’era chiesta dalla vostra leggierezza, che ci aveste pensato prima; e al fin vinto dalla vostra ostinazione ve la concessi? Ché il cuor mi presaggiva quanto ora m’accade, che passati quei furori vi pentireste; e per mostrar giuste cagioni del rifiuto, offendete me, lei e tutta la cittade. Bastava mandare a dire ch’eravate pentito, ché io contentandomi d’ogni vostro contento mi sarei chetato, senza svergognarmi in tal modo.

Don Ignazio. Io non spinto da giovenil leggierezza ciò dico, ma da giustissime cagioni.

Eufranone. Dunque dite che mia figlia è infame?

Don Ignazio. Ce lo dicono l’opre.

Eufranone. Se non foste quel che sète e men di tempo, io vi risponderei come si converrebbe. Ma che cose infami avete udite di lei?

Don Ignazio. Quelle che non arei mai credute.