Pagina:Della Porta - Le commedie II.djvu/312

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300 gli duoi fratelli rivali

facci grazia a tutti quei che han remissioni delle parti. E per voi, Eufranone caro, scriverò e supplicherò Sua Maestá che vi si restituisca quello che ingiustissimamente vi è stato tolto.

Don Flaminio. Poiché a tutti si fa grazia, sará anco giusto che l’abbi Leccardo il parasite.

Don Rodorico. Olá! ordinate che Leccardo sia libero. Ma mi par oggimai tempo che questi felici sposi e amanti dopo tanti travagli colgano il desiato frutto degli disperati loro amori. Entriamo.

Don Flaminio. Ma ecco Panimbolo.

SCENA V.

Panimbolo, don Flaminio, Leccardo.

Panimbolo. Padrone, che allegrezza è la vostra?

Don Flaminio. È tanta che non basto dirla. Panimbolo, la fortuna secondo il suo costume tutt’oggi ha scherzato con noi valendosi della varietá de’ casi; e all’ultimo Iddio ha essauditi i nostri desiri. Rallegrati, ché la poco dinanzi infelice miseria mia or sia ridotta in tanta felicitá.

Panimbolo. Stimo che di questo giorno vi ricorderete ogni giorno che viverete.

Don Flaminio. Oh dolcezza infinita degli innamorati, quando, dopo i casi di tanti infortuni, fortunatamente li è concesso di giunger a quel desiato segno che bersagliò da principio! Oh come ottimamente dissero i savi: che Amor alberga sovra un gran monte dove solo per miserabili fatiche e discoscese balze si perviene, volendo inferir che negli amori gran pene e amaritudini si soffriscono, ma quelle pene son condimento delle loro dolcezze! — Ma ecco Leccardo.

Leccardo. Io ho avuto tanta paura d’esser appiccato che la gola si è chiusa da se stessa senza capestro, e mi ha data la stretta piú de mille volte e senza morir mi ha fatto patir mille morti; e ancora che io abbi avuto grazia della vita, per ciò non sento allargar il cappio e sono appicato senza essere stato