Pagina:Dieci lettere di Publio Virgilio Marone.djvu/50

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Lettera Settima 43

rimota serbandolo per un tempo, in cui la lingua italiana, guasta e corrotta da genti straniere bisogno avesse d’una piena inondante d’acque limpide e pure, quantunque insipide, a ripurgarsi. Fu finalmente deciso bastar per tutti il Petrarca, ancorche ridotto da noi a più discreta misura; per l’uso comune e il diletto della nazione questo doversi leggere, ed istudiare secondo il bisogno: e così non verrebbe o ingiustamente posposto ad autori seguaci suoi, o nauseato da molti per tanto moltiplicarsi delle sue rime in tanti minori di lui.

Convien, diss’io allora per isfogo di zelo, convien ben convincervi, o miei Italiani, che non è poeta chi fa de’ versi soltanto, e che la sola imitazione mai non fece un Poeta. Intendete pur una volta quel saggio detto dell’amico Orazio, che nè gli uomini, nè gli dei, nè le stesse colonne, ove affiggonsi l’opere, e i nomi de’ nuovi autori, san perdonare ai poeti la mediocrità. Persuadetevi, che differenza è grandissima fra un’uomo formato dalla natura alla poesia, e un uom formatovi dal suo studio. Il Petrarca fu originale, nato da sè senza esempio, e senza guida. Come tutti pretendono adunque imitarlo s’egli non ha imitato veruno? Perche farne comenti, precetti, poetiche Petrarchesche, quasi fosse una macchina di cui basti sciogliere i pezzi, misurarne le parti, e farne altre tali per comporne una pari in bellezza? Sarebbe come quel Musico, il qual sapendo appoggiarsi l’arte del canto ai princìpj di Matematica, e di Geometria, volesse farsi per le dimostrazioni di queste scienze eccellente cantore. Mentre egli pianta un sistema, e il fonda sopra le basi dell’armonia, fa suoi computi, divide, e combina, eccoti un villanello, che senza pur sospettare di que’ misterj, rapisce cantando una intera nazione, passa nelle straniere, trionfa di tutti i più profondi maestri