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46 i marmi - parte prima


Guglielmo sarto e Tofano di Razzolina.

Guglielmo. Però mi son io uscito di casa per non gli avere a romper la testa. Mai viddi femina piú caparbia: la vole, a dispetto di tutto il mondo, che le donne abbino a comandare altretanto a’ mariti.

Tofano. Che ragion ci ha ella cotesta mezza dottoressa?

Guglielmo. Oh assai! La non fa altro che lèggere tutto dí, la studia la notte proprio proprio come la fussi dottoressa, e si lieva su, quando gli vien qualche ghiribizzo nel capo, e scrive scrive e tanto scrive che un banchieri non ha tante faccende con i suoi libri quanto ha lei con i suoi scartabegli.

Tofano. Voi altri artigiani non avete male che non vi stia bene. Ché non vi stavi voi ne’ vostri panni? Bisogna tôr moglie pari, come disse quel filosofo, mostrando i fanciulli che giocavano alla trottola ed eran di pari, e non armeggiar con le grandezze: — Io torrei una cittadina or che son ricco, e voglio lo stato per questo mezzo, acciò che la mia moglie possa portar la gammurra di seta, e io il saione di velluto. — Oh voi siete stato il gran pazzo! Non v’accorgete voi che tutti ci conosciamo l’un l’altro e che voi siate veduto tutto il dí su la bottega a guadagnarvi il pane e che solamente il dí delle feste voi vi mettete la gabbanella de tiffe taffe? La qual cosa ha del plebeo a tutto pasto: i gentiluomini vanno sempre a un modo e non si stanno a menar la rilla il dí di lavoro con l’ago o con altro meccanico esercizio.

Guglielmo. Egli è vero, io aveva a tôrre una donna che sapesse rimendare, imbottire, filare e cucire, e non scrivere, lèggere, cantare e sonare; poi l’ha un rigoglio di avermi fatto cittadino, che non si può stare in casa, e, che è peggio, i parenti, che son poveri, si vaglion qualche centinaia di ducati l’anno di questa mia pazzia.