Pagina:Dopo il divorzio.djvu/103

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a guaire lamentosamente, riempiendo d’una voce stridula e straziante l’immenso silenzio della sera. L’eco ripeteva quella voce indescrivibile, che sembrava il pianto di un fantasma disperato.

E la notte calò. Giacobbe andò a coricarsi sul giaciglio poco prima lasciato da Brontu; sentì l’odore dell’acquavite, si alzò, cercò il fiaschetto del padrone e bevette. Poi tornò a coricarsi, ed anch’egli sentì qualche cosa bollirgli entro il petto, inondargli il cuore, salirgli gorgogliando al capo, bruciargli le palpebre. L’ira gli cadde dal cuore, ma un sentimento di tristezza lo vinse tutto. Dall’apertura della capanna vedeva il chiarore sanguigno delle macchie bruciate vincere gradatamente l’ultimo barlume azzurro del crepuscolo: fusi assieme i due chiarori assumevano una tinta violacea d’una indescrivibile tristezza. Il cane, di tanto in tanto, guaiva ancora. Ah, che dolore, che dolore! Perchè aveva egli, Giacobbe, bastonato il povero cane? Che gli aveva fatto? Nulla. Ne provava un rimorso acuto, tenero e inconcludente; un rimorso da ubbriaco; e nello stesso tempo il guaire del cane lo irritava, dandogli il desiderio di alzarsi e bastonare ancora la povera bestiola.

Ad un tratto si ricordò di Brontu e di zia Bachisia, che da qualche momento aveva dimenticato, e trasalì tutto. Che sarebbe accaduto quella sera? Avrebbe Giovanna dato il suo consentimento? Ah! Ah! Ah! Uccellino di primavera! Perchè quel cane guaiva ancora? Pareva la voce di un morto. La voce di zio Basilio Ledda, del vecchio avoltoio as-

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