Pagina:Drigo - La Fortuna, Milano, Treves, 1913.djvu/297

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colle sue spume dolci scintillanti al sole!... Il mare!...

L'alba s puntava.

Biancofiore arrestò i cavalli, scivolò a terra, svincolò Elmir, e dolcemente, appassionatamente, come una mamma può fare del suo bambino adorato, l'adagiò sul lido. Bagnò un fazzoletto nell'acqua marina e glielo posò sulla fronte, appoggiò l'orecchio al cuore di lui. Debolmente batteva. Allora, con tutta l'anima nella voce, china su quel pallore di morte, Biancofiore lo chiamò:

— Elmìr!... Elmìr!...

E il mare sorrideva, e il sole era dolce e tiepido, ma egli non rispondeva.

— Elmìr!... Elmìr!...

E il suo accento era tale che i guerrieri di scorta si sentirono spezzare il cuore e si ritrassero cogli occhi umidi. Accasciata sulla sabbia, colla bocca sulla bocca del ferito, ella lo supplicava, lo supplicava disperatamente, delirante d'amore e di dolore, colle parole più dolci e più ardenti, quasichè dipendesse da lui rompere quel silenzio lugubre, quell'immobilità sinistra.

— Elmìr!... Apri gli occhi! Guardami! Sono io, sono la tua Biancofiore che ti adora!... Non farmi impazzire d'angoscia, Elmìr!... Guardami, guardami, rispondimi, amor mio!... Non farmi morire!... Abbi pietà di me!... Ti amo tanto!... E tu non mi rispondi!... Elmìr!...

Il ferito socchiuse finalmente gli occhi e si guardò intorno attonito. Dov'era?... chi gli stava