Pagina:Emma Perodi - Roma italiana, 1870-1895.djvu/338

Da Wikisource.

— 326 —

terpellanza diretta specialmente contro Biagio Placidi, che aveva fatto la nomina. Si venne al voto: 15 consiglieri furono per l’Amadei; 26 per il Placidi; ma di questi 26, 17 erano stati eletti dalla Unione Romana, e si disse che il Torlonia, appoggiandosi su quella maggioranza clericale, non poteva governare.

In mezzo a queste noiose e sterili lotte, fecesi udire la parola del Re, che ringraziava Roma per il tributo di affetto al padre. «Roma» scriveva il Re a Depretis, «con la sua cordiale ospitalità e col nobile contegno seppe mostrare ancora una volta quanto sia degna di essere la capitale del Regno, e di custodire la tomba del Padre della Patria».

Per altro le gare capitoline non terminavano in forza dei ringraziamenti reali. Il Torlonia aveva sostenuto l’operato dell’assessore Placidi in Consiglio, tanto per la nomina del canonico Biffani, quanto per una circolare ai maestri circa l’insegnamento religioso, ma si affrettò a ordinare che nessuno assessore diramasse circolari senza udire il parere della Giunta. Il Placidi capì e dette le dimissioni, che il Consiglio non volle accettare; così ogni seduta era spesa nell’esaurire incidenti e il lavoro restava a dormire.

I lettori rammenteranno il duello Lovito-Nicotera avvenuto sullo scorcio dell’anno precedente. Alla Camera, mentre in febbraio, nelle sedute antimeridiane si discuteva la legge per Ischia, e in quelle pomeridiane la legge Baccelli sulla autonomia delle Università, fu presentata domanda dal Procuratore dal Re per procedere contro i duellanti. Si votò su una proposta Crispi di rifiuto, e questo concetto trionfò. Ma il voto della Camera fu accolto male a Roma, perchè, volere o non volere, Nicotera aveva aggredito Lovito appunto, e soltanto perchè era segretario generale, lo aveva ferito gravemente e costretto a uscir di carica, eppure non era punito, nè poteva essere per volere dei suoi colleghi. Invece dispiacque che la Camera approvasse, anche con soli 8 voti di maggioranza, la legge Baccelli sull’autonomia delle Università, così combattuta da tutte le parti. L’on. Baccelli volle dare le dimissioni, ma il presidente del Consiglio, che già vedeva la sua barca ministeriale far acqua, lo scongiurò di rimanere.

Un’altra dimissione turbò la Camera nello stesso tempo: un voto contrario all’on. Farini lo fece venire nella risoluzione di cedere la presidenza, risoluzione così energica che neppure le preghiere dei colleghi, neppure il desiderio di commemorare il Sella e il Massari, morti in quei giorni, poterono indurlo a tornare alla Camera. Come candidati alla presidenza si facevano i nomi del Coppino e del Biancheri. Il Coppino fu scelto dal Depretis come candidato del Governo, nonostante la fiera opposizione fatta pochi giorni prima alla legge Baccelli. Il deputato di Alba raccolse 228 voti e 145 ne ebbe il Cairoli, e nell’urna si trovarono 54 schede bianche. Nel seno dell’opposizione vi erano vivi dissapori e palesi, non occulti, perchè nella discussione per il monumento a Quintino Sella si era veduto il Baccarini combattere la proposta del Governo, e il Crispi difenderla caldamente.

La morte di Massari e del Sella era una vera sventura, e Roma aveva sinceramente rimpianto quei due uomini, il cui nome aveva visto sempre associato alle vicende del paese. Il Massari era spirato a Roma, e tutta la cittadinanza si associò ai funerali di lui; il Sella era morto a Biella, e di qua, nei primi giorni, partirono a centinaia i telegrammi di condoglianza alla famiglia. Si sapeva che la malattia che avevalo ucciso, era stata da lui contratta qui per il desiderio di visitare la campagna romana. Soleva Quintino Sella, anche quando era ministro, anche nei mesi in cui i dintorni di Roma sono più insalubri, uscire prima del levar del sole e fare lunghe trottate su un cavallino sauro. Quando non voleva andar lontano, recavasi a villa Borghese, che per lui era sempre aperta,