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mento, per chiedergli un colloquio. Nella lettera diceva di volere alcuni particolari sulla vita dello zio, conte Serra, morto recentemente. Il morto era non zio, ma padre del magistrato, e il conte rispose al professore una lettera sdegnosa, con la quale assicuravalo che non aveva bisogno di dare schiarimenti sulla vita intemerata del proprio padre. Il Serra presiedè la Corte; Sbarbaro fece uno scandalo leggendo durante il dibattimento una lettera del ministro di grazia e giustizia, on. Ferracciù, che lo chiamava: «Carissimo Amico», e diceva far voti affinchè le vicissitudini della lotta cessassero ed egli potesse riportare «quella vittoria che spettava al suo ingegno, alla sua dottrina e alla sua bontà d’animo.»

La lettera fu vivacemente commentata e Sbarbaro, al quale il tribunale aveva affibbiato otto mesi di prigione, vide esclusa dalla Corte d’Appello la diffamazione e ridotta a un mese la sua pena. Il ministro Ferracciù lasciò il ministero, perché i suoi colleghi, cominciando dal presidente del Consiglio, non vollero più saperne di un ministro che aveva tante tenerezze per colui che diffamavali e scagliava atroci accuse contro le loro mogli. Fu pubblicata la lettera al Serra, e i giornali dissero, e con ragione, che la magistratura si lasciava intimorire dallo Sbarbaro. Ma dopo tutti questi fatti lo scandalo era tanto ingrossato, che l’autorità giudiziaria dovette occuparsene. Essa ebbe nelle mani le lettere minatorie al Re, al Coppino, al Serra, al Martini, al Morana, al Baccelli, al Magliani e al Brioschi, ed allora spiccò mandato d’arresto contro lo Sbarbaro. Egli abitava un quartiere alle Quattro Fontane, che guardava anche la via dei Giardini. Era in casa quando bussarono le guardie, ma per non farlo prendere, la moglie, che si sarebbe gettata nel fuoco per lui, lo fece scendere da una finestra, e quando fu in salvo si affacciò gridando agli assassini. Accorsero i carabinieri e si trovarono faccia a faccia col maresciallo Bernardi e con le guardie. Il Questore Restelli fu messo in riposo per aver così mal diretto l’operazione, e Sbarbaro continuò tranquillamente a stare a Roma in barba alla giustizia.

A tanti scandali una grave preoccupazione aggiungevasi: quasi tutta l’Italia era infetta dal colera, portato di Francia. Appena il morbo incominciò a manifestarsi a Napoli, il municipio creò un lazzeretto nel convento di Santa Sabina sull’Aventino, alcune sale d’isolamento in ogni ospedale, e un lazzeretto militare annesso all’ospedale di Sant’Antonio. Tutte le precauzioni che suggerisce la scienza furono prese: ripulitura delle case e dei cortili, chiusura dei pozzi, disinfezione e visite mediche ai viaggiatori alla stazione, vigilanza sui commestibili.

Fortunatamente tutte queste precauzioni giovarono e si riconobbe che non erano eccessive, perché ogni giorno, specialmente da Napoli, giungevano numerosi viaggiatori. Alcuni si ammalarono, e allora furono portati al lazzeretto o negli ospedali, e vennero rinchiuse tutte le persone che con loro erano state in contatto. Qua e là si vedeva una casa piantonata, si parlava di un nuovo caso, e la popolazione se ne impensieriva più del dovere, vedendo giungere sempre nuovi fuggiaschi da Napoli, dove il colera uccideva migliaia e migliaia di persone.

Si sapeva che a Napoli la miseria era grande, e si aprirono sottoscrizioni per i colerosi e nessuno negava l’obolo proprio. I ministri Grimaldi e Brin vanno a Napoli, e visitano gli ospedali ed i tuguri, sfidando il morbo; il ministro Magliani rifiuta il dono nazionale che gli volevano fare molti cittadini e prega il Pianciani che la somma raccolta sia inviata agli operai poveri napoletani; uno scienziato Svedese, che voleva serbare l’incognito, ma che si seppe essere il professore Landesberg, offri prima al Delogu, del ministero dell’Istruzione Pubblica, e quindi al Morana, segretario generale dell’Interno, 70,000 lire per i colerosi. Squadre di volontari partivano da tutta Italia per assistere gl’infermi, la carità napoletana faceva prodigi, ma il morbo rendeva vano ogni sforzo.