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neral Pasi, e che si era imbarcato sull’Arabia della Navigazione Generale Italiana per intraprendere un viaggio d’istruzione in Oriente, riceveva a Messina un telegramma, che lo richiamava d’urgenza alla capitale ove giunse il 19, e donde partì il 20 per Torino insieme con la Regina, affranta da questo nuovo e più terribile dolore.

La Camera e il Senato si riaprirono il 20, e solennemente commemorarono l’augusto defunto, e, mandando sincere e profonde condoglianze ai Sovrani, presero un lutto di 15 giorni.

Il 18 era pure morto un fedele amico dell’Italia S. E. il signor Mariani, ambasciatore della Repubblica francese presso il Quirinale. L’Italia non potette sentire in tutta la sua grandezza la perdita che faceva, dolorosamente preoccupata com’era, ma molte volte ha poi pianto quell’amico fedele, che lavorò sempre per riavvicinare due paesi, che gli erano egualmente cari.

Dopo i funerali del Duca, i Sovrani tornarono a Roma, e, a malgrado dell’ora e del tempo, alcune centinaia di persone li attendevano sul piazzale della Stazione e, con una silenziosa e solenne dimostrazione, mostravano loro ancora una volta, come ogni lutto della Famiglia Reale fosse un lutto per il popolo; e, il 10 febbraio, l’on. Biancheri confermava con la sua parola, questi sentimenti, presentando al Re le condoglianze della Camera.

L’on. Presidente della Camera disse a Umberto I:

«Sire,

«Di fronte a sventure come questa, che vi ha percosso, qualunque tempra di principe, per quanto robusta, ne rimarrebbe fiaccata, se non si sentisse, come Voi vi sentite, circondata dall’affetto di tutto il Vostro popolo. Un affetto così fortemente radicato nei petti italiani è diventato per la Nazione una necessità della propria vita. Un affetto che ogni giorno cresce e stringe intorno al Vostro trono perchè ogni giorno Voi vi rivelate ai nostri occhi fornito d’una nuova virtù.

«E noi oggi c’inchiniamo riverenti davanti al vostro nuovissimo lutto, superbi ancora una volta d’affermarvi che non sarà giammai a Umberto di Savoia cui possa mancare l’affetto e il conforto del popolo italiano se tutta quanta la missione del Suo regno altro non è che un sublime e costante apostolato di giustizia, di carità e d’amore».

Il Re ringraziò commosso il Biancheri per le sue parole piene di affetto, e il Presidente riferì alla Camera l’esito della sua missione.

Il giorno 8 febbraio il Crispi pronunziò alla Camera un discorso sugli obblighi che il Governo aveva di eccitare lo sviluppo edilizio di Roma. Quel discorso, era quasi la ripetizione di quello del 1881, quando trattavasi del primo concorso governativo per la capitale; io qui lo riferisco in parte, e in parte riassumo:

«Noi a Roma stiamo a disagio. È una locanda per noi piuttosto che una città, e, guardando quest’aula, dovete tutti sentire un grave rammarico nel riflettere che dopo 20 anni siamo sempre nella stessa casa di legno, coperta di tela e di carta, come se stessimo qui provvisoriamente e non nella capitale definitiva dello Stato».

Disse che si sentiva umiliato quando per una seduta reale vedeva sfare il seggio presidenziale per costruire un trono «perché il trono come lo Stato devono essere saldi e sempre, tali».

«Girando il mondo, o signori, e visitando i principali Stati del continente non ho mai sentito dire che gli edifici nazionali: il Parlamento, il palazzo di Giustizia, gli Istituti scientifici, tutto ciò insomma che interessa la Nazione, debbano esser fatti a spese della città, che ne fu scelta a capitale».

Additò l’esempio degli Americani, che al termine della guerra coll’Inghilterra, si trovarono