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Pagina:Fantoni, Giovanni – Poesie, 1913 – BEIC 1817699.djvu/315

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idilli 309

Sveller, dal mesto cuor, di lei non posso
l’usata imago, e cancellar le tante
care memorie, per cui sempre avranno
35cagion di pianto queste luci, stanche
di solcar, lagrimando, un tristo avanzo
d’un pria vivace giovanile aspetto. —
Disse ergendosi Tirsi, e intorno volse
dubbioso il ciglio, di pallor di morte
40tinta la fronte, ove pendea la curva
sassosa rupe, e la profonda valle
misurò con lo sguardo. I piè sospesi,
tese le braccia, e di lanciarsi in atto
piegò tre volte, e giá cadea dall’alto
45precipitando nella valle; quando
Aminta giunse, e il fuggitivo lembo
gli ghermí della veste. Al doppio crollo,
quasi dal sonno si riscosse, e in giro
voltò torbido il guardo, in terra meste
50fissò le luci, dal profondo seno
trasse un sospiro; delle amiche braccia
si fe’ sostegno, e con incerto passo
fe’ ritorno, piangendo, alla capanna.
Sei volte in ciel compì l’argenteo corso
55Cinzia, e di pianto ognor lo vide asperso,
e quando appare ad annunziar la notte,
e quando bianca di vergogna fugge
al nascer biondo del lucente giorno.
Ma, prive alfin d’umor, l’egre pupille
60chiuse pietoso un sempiterno sonno.
     I dolenti pastor di poca terra
il cenere coprîro, il caso acerbo
inciser su la rupe, e ancor l’addita
l’annoso sasso al passegger, che, carco
65di polve e di sudor, sotto la cheta
ombra riposa della grotta, e molce
l’edaci cure al solitario invito
de’ neri lecci, dove alberga muto
pigro silenzio e con la morte il sonno.
70O voi, pastori, a cui tenace il cuore
preme desio d’amor, prendete esempio