Pagina:Fausto, tragedia di Volfango Goethe, Firenze, Le Monnier, 1857.djvu/495

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parte seconda. 487

    Membra di questi garzoncei dall’aureo
    Crin? Perchè il labbro proferir bestemmia
    Non potrebbe oggimai? — Ma d’arte magica
    Se oggi così son io fatto ludibrio,
    Chi in avvenir sarà che più farnetichi? —
    Non calmi, troppa que’ bricconi han grazia
    Che sinora abborrii!
           (Agli Angioli.) Vaghi i miei giovani,
    Oh! non v’incresca un tratto a me rispondere:
    Della razza pur voi non siete — ditemi —
    Di Lucifero? or via! fate ch’io v’abbia
    Più daccosto, più ancor; chè in dolce abbraccio
    Stringermi a voi freschi e bellocci io voglio.
    Al diletto che ho in me solo in veggendovi
    Parmi che tante fiate in compagnevole
    Vita con voi già mi trovassi! Oh! l’occhio
    Più vi contempla, o maliardi amabili,
    Più sedacenti, ed aggraziati, e teneri
    Sempre ei vi trova, e le ritonde e morbide
    Forme che ammiro in voi più e più vagheggio;
    E più le ardenti mie vene divampano
    De’ segreti desir che il micio scòtono?1

  1. Goethe insiste sopra quest’umore lascivo del gatto, ch’egli attribuisce a Mefistofele, come già nella prima parte si legge: «Io muoio di voglia come il mucino che s’inerpica di nascosto su per la scala a canto al fuoco, e poi va via stropicciandosi alla parete. Provo anch’io non so che rimordimenti di coscienza, sol che non avessi addosso un po’ del pizzicore de’ ladri, e un po’ della fregola de’ gatti.» Mefistofele è qui il vero diavolo de’ cattolici; ei non ha pur ombra intorno alla fronte di quella benda tenebrosa, di quel segno di fatalità che il vago Lucifero di Milton toglie a prestito dal paganesimo de’ Greci. Non lega egli, non seduce, non attrae le anime verso l’abisso per una specie d’influenza simpatica; me ve le caccia con forza e rozzezza. Vediamo in lui il genio del male astretto